Zone d’Ombra, Ep.02


Oh, la volta scorsa t’ho detto di non perdere tempo con i difetti.

E poi ti ho detto che sono anche le cose in cui non siamo portati.

Beh non è proprio così. Dai che lo avevi capito! L’avevo semplificata un po’.

A volte non possiamo tralasciarli; alle volte, non si può soprassedere sulle nostre zone d’ombra, che siano difetti o altro, diventa imperante affrontarle.

E, qualcosa possiamo farla.

Ed è piuttosto facile si struttura in due mosse; la prima è riconoscerla.

Ma come prima avevo detto che le conosciamo? Perché ora dobbiamo riconoscerle.

Eh, perché è vero che le conosciamo, ma non ci piace ammetterlo, inoltre pochissimi hanno una visione obbiettiva di sé stessi, anzi di solito tendiamo a sminuire gli effetti che le nostre zone d’ombra hanno sull’ambiente che viviamo.

Insomma l’ombra si allarga da noi e “guasta” anche altro.

Quindi riconoscerla, vuol dire, non tanto comprenderla, ma ammettere che abbiamo un effetto negativo sugli altri.

Bene, arriviamo il secondo punto, che è anche questo facile, ma ha un brutto prerequisito.

L’azione è semplicemente chiedere aiuto, farsi aiutare, dire “ehi qui sono in difficoltà, non riesco a gestire bene questa cosa”.

Il prerequisito è inghiottire l’orgoglio, la presunzione di bastare a noi stessi e di sapercela fare da soli.

Perché se così fosse allora avrebbero ragione quelli che si sono inventati tutta l’epica e la retorica delle “aree di miglioramento”, no?

Ma tutto questo vuole anche dire che dobbiamo comprendere per bene il benessere del nostro contesto sociale, che sia in ambito lavorativo o personale poco cambia, è più importante delle nostre paure (di non farcela, del biasimo, di quello che volete voi, tanto le paure hanno tanti nomi ma stringi stringi è sempre la stessa cosa).

Chiedere aiuto, imparare a farlo, richiede lavoro e sacrificio, ben più che lavorare sulle cose positive, per cui non pretendere troppo da te stesso: dove sei scarso contentati di non far danno.

Zone d’Ombra, Ep01


Ecco qui il primo episodio delle Zone d’Ombra

@luci_di_do

Si cresce lavorando sui punti di forza non sulle “Zone d’Ombra” (Ep.01) #imparacontiktok #cultura #puntidiforza #zonedombra #falsimiti

♬ suono originale – Luci di Do

Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido
— Anonimo (spesso attribuita ad Albert Einstein)

Iniziamo con il chiarire che la frase non è di Einstein, come è stato dimostrato, ma non si sa di chi sia; peccato, perché ha un suo valore.

Però “ognuno è un genio” senza un contesto è semplicemente una asserzione falsa, per cui togliamola.

Se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido
— Anonimo

Molto meglio!

Ora vediamo come usarla!

Se tu sei una persona che vuole migliorarsi, che vuole crescere potresti aver imparato, da qualche parte nella tua vita, che per farlo devi lavorare sui tuoi “difetti”.

Che è solo un altro modo per intendere “le zone in cui non sei portato”.

L’idea è semplice: voglio costruire il mio me stesso di domani in modo che sia migliore del me stesso di oggi e per farlo inizio a togliere le cose che non vanno.

E la cosa potrebbe anche funzionare se lo potessi comprare al mercato.

Te lo immagini? “Salve! Mi dà mezzo litro di simpatia? E anche due etti di parlantina, grazie.”

Sarebbe bello, vero?

Purtroppo non funziona così; sai invece come funziona?

Te lo dico subito: quello che sarai domani lo costruisci a partire da quello che sei oggi.

E oggi sei la somma di quello che sei stato nel tuo passato, il che implica, occhio che è forte, che i tuoi difetti hanno avuto un significato e una loro utilità.

Per adesso prendila per buona, ne parleremo ancora più avanti, c’è molto da dire.

Se i difetti hanno (avuto) una loro utilità, capisci bene, che non si possono modificare solo perché lo desideriamo.

Ma si è visto che, viceversa, se lavoriamo sui nostri punti di forza e man mano allarghiamo ad altre zone neutre (dove non eccelliamo ma neppure facciamo schifo), cresciamo molto più in fretta e ci divertiamo pure nel farlo.

E guarda un po’, siccome tutto è connesso, pian piano migliorano anche le nostre zone d’ombra o quanto meno ne attenuiamo la loro manifestazione!

Per cui smettila di flagellarti su quello che non sei e inizia a divertirti a diventare quello che sei!

Là dove non vuoi guardare


La risposta originaria è rintracciabile su Quora; pronti? Non sarà facile da digerire.

La pedofilia è un orientamento sessuale o una devianza mentale?

Domanda molto complessa e delicata.

Bisogna partire con ordine: la pedofilia non è equivalente ad una violenza o ad uno stupro. Sebbene i fatti di cronaca spesso parlino di eventi in cui un adulto usa il suo potere (di qualsiasi genere) per forzare un “non maturo” ad avere rapporti contro il suo volere, pedofilia ha un altro significato.

Si può intuire come l’utilizzo del termine “non maturo” introduca il secondo problema.

Cosa è un “non maturo”? Come viene definito?

Ci sono sostanzialmente due approcci: uno biologico, l’altro psicologico/legale.

Quello biologico è facile (in apparenza): consideriamo non maturo chi non ha ancora avuto lo sviluppo genitale (in fase pre-puberale).

Questa distinzione è più o meno quella seguita dalla psichiatria e si può leggere anche su wikipedia.

Sulla stessa pagina possiamo anche osservare che ci sono anche altre due sottocategorie:

Quest’ultimo ci porta alle considerazioni psicologiche e quindi legali e, come vedremo, in realtà farà collassare l’arogmento sulle stesse basi.

Provare attrazione per un adolescente è un orientamento, una perversione o altro?

Iniziamo con il dire che qualunque aspetto morborso, in qualunque contesto è una perversione; a rigore non dovrei dire così, ma la faccio molto semplice.

Questa assunzione è però molto potente, dopo aver rimosso le tematiche di violenza all’inizio ora stiamo rimuovendo l’ipotesi di morbosità, cioè di malattia (in senso di distorsione) psichica.

Non vuol dire che non esistano questi casi, semplicemente per procedere nella risposta stiamo suddividendo in categorie:

  1. violenza: è un reato in qualsiasi caso e non ci sono attenuanti
  2. morbosità: è una perversione

Negli altri casi si tratta sempre di perversione o solo di orientamento?

Per quanto riguarda l’attrazione per gli adolescenti potrei citare la normativa italiana che considera reato di pedofilia fino ai 14 anni, ma preferisco chiamare in causa il caso di Brietney Spears.

Una ragazzina che diventa una sex symbol.

Come ci poniamo qui di fronte? Milioni di persone perverse? Lo show bisness che la faceva apparire diversa? E se anche fosse perché questo sarebbe una giustificazione?

Ehhhhhhhh non è banale e ci può aiutare solo un arido pragmatismo.

Se una persona è attratta da persone adulte e si trova di fronte un’adolescente (ma anche un anziano) camufatto da adulto ne potrebbe essere attratto, perché SEMBRA una persona adulta.

In fondo, l’attrazione è legata in gran parte all’aspetto esteriore, ma più in generale alla “forma” con cui una persona decide di mostrarsi.

La sua immagine pubblica direi.

E si badi che questa distinzione tra pubblico e privato e il suo ruolo nell’attrazione vale per chiunque: quando ci “vestiamo bene” o ci trucchiamo per uscire stiamo di fatto indossando una diversa versione di noi stessi.

Tornado a noi: è dunque ebefilia essere attratti da adoloscenti che sembrano adulti oppure no?

Il pragmatismo di cui sopra, ma fa rispondere NO: ognuno è responsabile di ciò che fa (compreso mimetizzarsi o fingersi altro), non è corretto chiedere a chi subisce una strategia di mimetismo di essere responsabile al posto di chi la applica.

Detto in altri termini: non può essere considerato sbagliato essere attratti da una persona che si mostra come adulta.

Tuttavia, quando si tratta di questi temi, non è la semplice attrazione soprattutto se occasionale, il fulcro del problema: lo riprendiamo meglio dopo.

Faccio un focus sul mimetismo degli adolescenti perché nella volgata si dà per assodato che l’adulto deve resistere a queste eventuali tentazioni; cioè ti scuso se sei attratto, ma la tua responsabilità di adulto deve farti negare questa attrazione e giammai approcciarti ad un adolescente.

Eeeee no. Messo in questo modo è inaccettabile. Lo è perché è massimamente ipocrita.

Il caso di Brietney Spears è stato emblematico, ma in realtà tutte le giovani ragazze dello star system sono state “sessualizzate” per vendere di più.

Quello che emerge è che queste ragazzine sono state addobbate come sex symbol per spingere una certa reazione nel pubblico, salvo poi colpevolizzare il pubblico stesso.

Le responsabilità vanno suddivise e tutti devono concorrere al giusto inquadramento delle cose, viceversa regna solo una grandissima confusione.

Questo vale anche a casa nostra, nelle realtà quotidiane, ai ragazzi va parlato e spiegato che fingersi adulti può richiamare l’attenzione degli adulti.

Attenzione!! Non vuol dire che l’adulto in questione poi ricorrerà a violenza! Bisogna smetterla di semplificare le cose.

Vuole solo dire che un adulto potrebbe non riconoscere l’adolescente sotto l’immagine mostrata e approcciarlo come adulto.

Questi eventi non sono traumatici, ma possono essere spiacevoli, fonte di confusione e destabilizzanti.

E lo sono perché capita sempre così, quando fingi di essere quello che non sei; a qualunque età.

Riassumento fino qui:

  1. violenza: è un reato in qualsiasi caso e non ci sono attenuanti
  2. morbosità: è una perversione
  3. un adolscente che si mostra maturo: non rientra nella ebefilia; tuttavia è un aspetto molto problematico perché strumentalizzato dallo star system e sottovalutato nel privato.

Torniamo al tema iniziale, superati i fenomeni di mimetismo, ci concentriamo sulla ebefilia cioè un adulto che prova attrazione (non morbosa, lo abbiamo detto prima) verso adolescenti che fanno gli adolescenti.

Di nuovo il nostro pragmatismo ci aiuta: è una pratica diffusa in varie parti del mondo, a cominciare dalla Grecia Antica per cui è probabile sia un semplice orientamento sessuale e non una perversione.

Tuttavia un’analisi più ampia ci pone di fronte ad alcune questioni non banali.

I rapporti di forza psichica tra un adolescente e un adulto sono molto sbilanciati.

Lo rendo con un esempio crudo: i guerrieri suicidi vengono arruolati tra i ragazzini perché sono più pronti a morire per un po’ di parole vuote (chiamate ideale).

Questo ci conferma, senza troppi panegirici, che un’adolescente non è in grado di confrontarsi alla pari con un adulto e che quindi può essere manipolabile.

Queste riflessioni non hanno un particolare valore nel merito della domanda che si concentra sull’attrazione/perversione sessuale, ma contano mentre valutiamo la nostra società.

E di nuovo, registro che sia carente nella formazione. C’è un enorme vuoto culturale, le cose non vengono dette, non vengono spiegate e nessuno verifica che siano comprese e recepite.

Mentre molti si indignano al solo pensiero che un adulto possa avere un rapporto sessuale con un minorenne, nessuno si preoccupa di capire che il vero rischio non è nel sesso, ma il rapporto interpersonale in sé.

E non è sbagliato avere un rapporto emotivo con un adolescente, ci mancherebbe! Mettiamo in galera tutti i professori o gli amici di famiglia?

Il problema è lasciare un adolescente da solo, vederlo sempre come un bambino e non dargli gli strumenti per non perdersi nel rapporto con un adulto.

Il problema è talmente vasto, che anche gli adoloscenti diventati adulti spesso non hanno questi strumenti: tutte le persone che in un modo o nell’altro ricadono in luoghi comuni quando parlano di amore sono di fatto in questa situazione.

E sì, la stragrande maggioranza delle persone è emotivamente immatura; anche a 40 anni e più.

Perdiamo tempo a chiederci se è una cosa è giusta o no in generale, invece che impiegarlo per fornire agli individiui gli strumenti per decidere da soli.

Rifacciamo il punto:

  1. violenza: è un reato in qualsiasi caso e non ci sono attenuanti
  2. morbosità: è una perversione
  3. un adolscente che si mostra maturo: non rientra nella ebefilia; tuttavia è un aspetto molto problematico perché strumentalizzato dallo star system e sottovalutato nel privato.
  4. l’ebefilia è probabilmente un orientamento, ma ha sociologicamente parlando molti aspetti problematici che sono sistematicamente ignorati.


Giunti a questo punto abbiamo quasi finito il ragionamento.

La ricerca del piacere sessuale si risveglia in ogni individuo in momenti diversi e il piacere è piacevole.

Scusa la tautologia, ma sembra che questa evidenza non venga mai considerata.

Un bambino o un adolescente che scopre il piacere sessuale ha naturalmente voglia di sperimentarlo, cioè capita così a tutti, basta prendere un testo di sessuologia per rendersene conto.

Che il bambino o l’adolescente, voglia sperimentarlo da solo, con coetanei o con persone adulte come lo inquadriamo? Preferenze, orientamento o perversione?

E giunti fino a qui, possiamo finalmente dire: ma CHI SE NE FREGA!?!?!?

Dare un nome alle cose è fonamentale, ma bisogna dare i nomi giusti alle cose giuste.

La nostra attenzione non dovrebbe essere attirata dalla mera differena di età, ma da come i rapporti si instaurano.

Per il benessere di un individuo non è pericoloso un rapporto sessuale consenziente, quanto il rapporto interpersonale in sé.

Un evento isolato (sempre consenziente e non morboso) difficilmente avrà grosse conseguenze nello sviluppo di un individuo, mentre un legame affettivo ne avrà molti.

Il legame dobbiamo indagare: la differenza di forze tra un adulto e un bambino o un adolesente non possono essere passate sotto silenzio.

Chi instaura un rapporto con un altro individuo sfruttandone deliberatamente le debolezze, ha per me un che di perverso.

Non è influente l’età, ma la mancanza di rispetto e l’azione deliberatamente manipolatoria.

Beninteso: non assolvo chi vive fuori dalla realtà e nega le evidenze, è da condannare anche chi non guarda le cose in faccia, chi non vuole crescere, chi alla fine cerca quelle menzogne di cui sopra.

Spesso ogni vittima trova il suo carnefice e meriterebbero di essere “puniti” entrambi.

E lo so che non è un discorso facile, ma crescere è una responsabilità persnonale: non farlo ha delle conseguenze personali ma anche sociali (es.: come si può educare un figlio se se si rifiuta di crescere a propria volta?)

Detto questo cappello, è evidente che un adolescente o un bamino è in uno stato di svantaggio psicologico e non ne ha colpa, non è una sua mancanza, deve ancora fare certe esperienze.

Quindi, nel caso di una relazione tra adulto e bambino o adolescente mi farei le stesse domenade che mi farei tra due adulti: uno dei due è irrispettoso o manipolatorio? se sì è perversione, se no sono fatti loro.

E quindi giungiamo alla fine:

  1. violenza: è un reato in qualsiasi caso e non ci sono attenuanti
  2. morbosità: è una perversione
  3. un adolscente che si mostra maturo: non rientra nella ebefilia; tuttavia è un aspetto molto problematico perché strumentalizzato dallo star system e sottovalutato nel privato.
  4. l’ebefilia: probabilmente è un orientamento, ma ha sociologicamente parlando molti aspetti problematici che sono sistematicamente ignorati.
  5. il gusto sessuale conta poco:
    • se il rapporto interpersonale è irrispettoso o manipolatorio: perversione
    • se il rapporto è rispettoso e corretto: orientamento sessuale
  6. infantofilia: per quanto detto sopra è una perversione

Come dicevo all’inizio le cronache parlano di violenza a sfondo pedofilo chiamandola pedofilia, ma è profondamento sbagliato.

La maggior parte degli individui affetti di pedofilia non ricorre a violenza e molti di loro vivono una vita di sofferenza non indulgendo nelle proprie inclinazioni.

Praticamente non ci sono cure, non si può imparare ad essere attratti da altro.

E anche in questo caso, trovo che la società sia carente nella formazione e nella divulgazione.

Uomini, donne, aborto e ipocrisia


L’ultima non manca mai.

In questi giorni ho visto molte persone ergersi (su internet) a difesa del diritto all’aborto e alla libertà di scelta della donna, laddove all’uomo non è concessa libertà di scelta.

The US Supreme Court overturns the legalization of abortion in the Roe v. Wade case of 1973

Ora, è vero che tutto parte da una visione patriarcale e conservatrice (retrograda) del mondo e che quindi questa reazione sia comprensibile, però di solito due errori non fanno una cosa giusta.

Mi riferisco da una parte alla sentenza della corte suprema Americana che annulla la sentenza che rendeva l’aborto diritto federale.

Partiamo, come al solito, per punti e cerchiamo di farlo in maniera asettica, senza pregiudizi.

Ora, è vero che chi non è munito di utero debba astenersi dall’avere giudizi e/o opinioni sull’aborto?

Beh, evidentemente no, a parte che il diritto di pensiero non lo si può rimuovere (spesso aggiungerei purtroppo), va anche detto che un padre o un futuro padre dovrebbe poter prendere parte al processo decisionale.

Non ho detto avere l’ultima parola, solo poterne parlare con la compagna; ma per farlo deve essersi fatto un’opinione, no?

Insomma, questa cosa che l’aborto riguardi solo le donne non sta in piedi, di nuovo; non sto mettendo sullo stesso livello chi deve fare la gravidanza e chi ne vuole solo parlare, sto solo dicendo che in una società civile la società dovrebbe, appunto, poter parlare delle cose alla ricerca della miglior soluzione possibile.

Ok, l’ho detto due volte, non lo ripeto più: se leggi le mie parole, ma le infili in una qualche tua proiezione distopica alla ricerca di uno spiraglio per la tua crociata idiotista… quella è la porta, grazie.

Torniamo alle cose serie.

Dicevo, come la società si organizzi sull’aborto non può essere decisione lasciata solo ad una parte (uomini o donne), ma dovrebbe essere una ricerca di una soluzione efficace ed efficiente sia sul piano pratico che sul piano etico.

Sì, anche l’etica è efficiente, adesso ci arrivo, dammi un attimo!

Allora la prima cosa è chiedersi: da dove inizia la vita?

Domanda complicatissima, certo, chi può rispondere? Nessuno.

Cioè, nessuno, perché a dirla tutta abbiamo qualche problema a definire cosa sia vivo (Vita – Wikipedia).

Poi in particolare qui cercheremmo la definizione di vita applicato ad un animale complesso come l’uomo.

Ora, il ciclo vitale che richiede metabolismo, omeostasi eccetera ci da qualche indicazione: un essere è vivo se può fare quelle cose, nel suo ambiente di riferimento; così come noi anneghiamo in acqua, così un pesce soffoca in aria.

Si potrebbe dire che fino al parto un embrione non è adatto alla vita; un po’ tranchant come visione, però potrebbe starci.

Però si può obiettare, che in realtà è vivo ma il suo ambiente di riferimento è l’utero materno e non l’aria, e anche questa visione non è poi così sbagliata.

Però in fondo, anche quando evacuiamo stiamo sopprimendo milioni di esseri viventi (batteri), eppure non mi pare che nessuno abbia intrapreso una campagna per la salvaguarda dei passeggeri del lungo convoglio castano…

Ok, ok, ok, non è la stessa cosa! Voglio solo dire che forse non basta pensare alla vita, ma dobbiamo cercare un discrimine che abbia un senso un po’ più concreto.

Per farla breve, la domanda è: cosa è un essere umano? O meglio da quando?

Ecco, anche qui non è proprio semplice, determinare quante cellule ci vogliono a fare un essere umano (o un gatto).

In questo caso la scienza si è espressa dicendo che tale limite  è la creazione del sistema nervoso, insomma quando si passa da embrione a feto.

E mi sembra una buona idea, smettere di farsi opinioni personali basate su vuote superstizioni e affidarsi a parametri quanto più oggettivi e verificabili possibili è sempre una buona cosa.

Quindi insomma, ad oggi parrebbe che un discrimine ci sia, poi se le legislature si uniformassero sarebbe meglio, ma insomma ci sono delle basi robuste per dire che c’è un confine dove si passa da ammasso di cellule a essere vivente e quindi con diritti.

Ma dai? Che roba pazzesca, è esattamente quello che abbiamo scoperto 60 anni fa! Ehm… sì è così non ci sono grandi novità.

Ora, però uno potrebbe chiedersi, perché ci sono medici obiettori se la posizione scientifica è chiara?

Ecco, perché… In realtà lo abbiamo visto con il covid, essere medici, o ingegneri o informatici non vuol dire essere scienziati.

Chi più, chi meno, sono tutti “operai” della scienza, cioè la usano ma non hanno veramente bisogno di abbracciarla nella sua interezza.

Cioè un ingegnere può fare benissimo il suo lavoro anche se non crede alla interpretazione relativistica del tempo, dello spazio e della gravità; a meno che non sia un ingegnere spaziale e debba costruire i sistemi di comunicazione di una stazione orbitante: in questo caso gli effetti relativistici sono evidenti per cui non li può ignorare.

Ma anche in questo caso, potrebbe continuare a non credere all’interpretazione relativistica ma applicare le correzioni del caso derubricando il tutto a una stranezza che prima o poi si chiarirà.

È una situazione ben triste e personalmente non consentirei nessuna obiezione di coscienza: o sei un uomo di scienza o non lo sei, anche perché da certe scelte dipendono le nostre possibilità di esercitare un certo diritto.

Odio, chi pensa di poter fare il furbo, chi fa le cose per convenienza, chi finge solamente: voglio dire, non puoi fare il fascista per finta, o lo sei o non lo sei; poco importa se di tuo non hai fatto male a nessuno, se a casa dici che lo fai solo per opportunità, resti un fascista.

Allo stesso modo, non puoi fare il medico e mettere in discussione (con argomentazioni da bar) la scienza che sta alla base della medicina che professi.

È semplicemente inconcepibile.

Ok, ok, mi calmo, mi calmo.

Insomma, credo che sia evidente che esista un tempo entro cui un aborto sia scientificamente non assimilabile ad un omicidio.

Porre una linea è ovviamente impreciso, ma è una approssimazione cui ci dobbiamo rassegnare.

Ma quindi dovremmo impedire a chiunque di manifestare la sua contrarietà all’aborto?

Direi di no: non dovremmo per nulla limitare questa manifestazione.

Ma dovremmo chiedere a chi “manifesta” di motivare le sue argomentazioni, posto quelle che chiamano in ballo il principio della vita in un punto arbitrario del tempo sono irricevibili perché ci sono più robuste definizione scientifiche, le altre possono avere un senso; per esempio:

  1. Il declino dell’etnia
  2. Il desiderio che ogni embrione possa diventare prima feto e poi bambino
  3. La deresponsabilizzazione dei giovani

Che sono tutte valutazioni che hanno un senso e delle conseguenze.

Ora, credo che saremo tutti d’accordo, che condannare un bambino a nascere in una famiglia dove non sia voluto non è una grande idea vero?

Beh di solito i cattolici dicono che un bambino può essere “rifiutato” e mandato direttamente in affido, condannandolo di fatto ad una vita difficile (per usare un eufimismo).

Però diciamo che possiamo migliorare le cose, solo che per migliorare occorrono interventi anche culturali, su vari fronti.

Infatti, qualcuno mi dovrebbe spiegare quale sarebbe la differenza tra l’obbligare una madre (e un padre) ad avere un figlio, solo per darlo in affido alla nascita, rispetto alla gravidanza surrogata.

Con la differenza che nella gravidanza surrogata almeno una famiglia che vuole il bambino già c’è, non va cercata.

E in caso di malformazioni che portino a disabilità? Chi si deve assumere la responsabilità di questa vita difficilissima? E per quale motivo?

Insomma io non le vedo queste gran differenze.

Capisci cosa intendo? Da una parte bandiamo tutte le opinioni infondate che non riguardano una società civile, dall’altro la politica può (e deve) esprimere le preferenze di un popolo, salvaguardando le minoranze e i singoli ed è qui che tutta la narrazione dei contrari agli aborti crolla smascherando la sua ipocrisia e pochezza.

Ma, vorrei fare un passo in più.

Ritengo che ci si occupi di cercare di imporre una scelta sulla vita degli altri, senza che l’altro abbia un impatto diretto sulla propria esistenza sia una persona disturbata con deliri di onnipotenza.

Mi spiego, un conto è cercare una soluzione equa, che tenga conto di desideri e necessità e difronte all’impossibilità di ottenere tutto presenti più opzioni anche spingendone una sulle altre.

Un conto è fregarsene dei desideri e delle necessità degli attori coinvolti e cercare di imporre una propria visione non condivisa né richiesta.

Facciamo il solito esempio epidemia/semaforo: si impone una cura piuttosto che il semaforo per un bene sociale maggiore (possibilmente documentato), cioè ci sono i desideri e gli interessi di molti in gioco; un conto è andare a dire ad un gruppo di vegetariani che devono mangiare, chessò, canguro, perché una dieta solo vegetariana è contraria alla dentatura umana…

Cioè se uno è contrario all’aborto, ha ragione a cercare di convincere gli altri a non abortire, ma non ha ragione se fa queste campagne senza valutare a tutto tondo i temi relativi alla natalità.

Sarebbe diverso, invece di sentire gente che cerca di proibire qualcosa, gente che si sbatte per creare una società in cui quella cosa che vuoi vietare (aborto) sia tutto sommato trascurabile o non conveniente.

Questa è la differenza tra essere uomini ed essere caporali…

Erri De Luca e la poesia


La poesia non è un’arte di arrangiare fiori, ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella tempesta. Per me è pronto soccorso, la poesia, non una sviolinata al chiaro di luna. È botta di salvezza (Erri De Luca).

Per comprendere queste parole occorre leggere De Luca.

A mio avviso meriterebbe il Nobel per il nuovo uso della poesia o della prosa, dipende da come la vuoi guardare.

Non ne parlerò, perché qualunque parola sarebbe sottrazione di meraviglia. Diminuzione di opere grandiose seppure pacate, quasi quotidiane.

Ne rimasi folgorato, o meglio attonito mentre un giogo si sollevava, come una città dopo lungo tempo liberata dall’assediante (cit. Oscar Wilde) che torna a vivere a respirare senza preoccuparsi di fare rumore.

Così, iniziai a scrivere ispirandomi al suo stile e scoprendo, rileggendomi a distanza di tempo, bellezza sempre fresca.

Scritti senza pretese di notorietà, sono privati, e la bellezza la conosco solo io, eppure ora c’è e prima non c’era, prima erano parole, a modo o in rima restavano solo parole.

Mentre ora l’uso della poesia come pennellate (a volte di disturbo) dona luce a testi altrimenti sciapi, magari di spessore ma… solo spessi.

Godere delle sue opere è solo una parte per comprendere la sua posizione, occorre conoscere la sua storia, di manovalanza a spasso per l’Europa a faticare e imparare lingue mentre i suoi testi rimanevano in attesa, sospesi in una bolla di tempo.

Occorre comprendere il suo amore per l’umanità e le sue creazioni e le infinite varietà, poi non così varie (comprese le religioni).

Non sono sempre d’accordo con le sue posizioni, come nel caso della TAV, ma riconosco sempre il valore delle sue riflessioni.

La poesia è quindi uno strale di vita che ci raggiunge per ricordarci di non mollare quando tutto va male e si essere felice quando le cose vanno.

Versione su quora.

La rottura del narcisismo


Fu Freud il primo (beh magari uno dei primi) a rendersi conto che la cultura occidentale ha introdotto una discontinuità nel narcismo.

E lo ho fatto molte volte con personaggi come Galileo, Copernico, Darwin, lui stesso e Nash.

E non è un caso se sono stati quasi tutti uomini di scienza.

I primi ci hanno fatto capire che la terra non è il centro del sistema solare, Darwin ci ha fatto capire che siamo animali, né più né meno degli altri e che siamo “figli” di un processo naturale chiamato selezione naturale, come tutto ciò che abita questo pianeta (e qualunque altro se mai lo scoprissimo), Freud ci ha fatto capire che non siamo neppure padroni della nostra mente, perché esiste l’inconscio composto da molte cose che non coincidono per nulla con il nostro io cosciente e che anzi, a volte ci sono del tutto aliene; Nash ci ha insegnato che il bene del singolo non è un obbiettivo furbo, paga di più cercare il bene del gruppo (grande a piacere).

E questa visione, che ha apparentemente ridotto di molto la nostra autostima, è la base su cui abbiamo prosperato: il rifiuto dei dogmi e delle posizioni aprioristiche ci hanno dato condotto ad un numero di scoperte immane che ha migliorato le nostre vite di svariati ordini di grandezza.

Abbiamo capito che non siamo nulla di speciale, ma siamo speciali perché lo abbiamo accettato, in ultima analisi è questa la supremazia culturale dell’occidente: non c’entrano nulla il consumismo o altri aspetti economici di cui tanti vanno cianciando.

Ma l’accettazione profonda di non essere nulla di speciale, di essere un dettaglio nel quadro di insieme; non a tutti, o forse dovrei dire solo a pochi, è chiaro quanto sia pervasiva questa consapevolezza, quanto influenzi il nostro approccio al mondo e quanto, contemporaneamente, sia efficae ed efficiente.

I nostri approcci sono umili, non presuppongono mai una supremazia a prioristica, non si affida a valutazioni non quantificabili, ripetibili, studiabili.

Insomma, siamo molto cauti, quasi diffidenti anche su noi stessi, e questo ci rende immensamente forti.

L’Inquinamento dell’affetto


«Ti amo» – disse il Piccolo Principe. «Anche io ti voglio bene» – rispose la rosa.

«Ma non è la stessa cosa» – rispose lui. – «Voler bene significa prendere possesso di qualcosa, di qualcuno. Significa cercare negli altri ciò che riempie le aspettative personali di affetto, di compagnia. Voler bene significa rendere nostro ciò che non ci appartiene, desiderare qualcosa per completarci, perché sentiamo che ci manca qualcosa.»
Voler bene significa sperare, attaccarsi alle cose e alle persone a seconda delle nostre necessità. E se non siamo ricambiati, soffriamo. Quando la persona a cui vogliamo bene non ci corrisponde, ci sentiamo frustrati e delusi. Se vogliamo bene a qualcuno, abbiamo alcune aspettative. Se l’altra persona non ci dà quello che ci aspettiamo, stiamo male. Il problema è che c’è un’alta probabilità che l’altro sia spinto ad agire in modo diverso da come vorremmo, perché non siamo tutti uguali. Ogni essere umano è un universo a sé stante. Amare significa desiderare il meglio dell’altro, anche quando le motivazioni sono diverse. Amare è permettere all’altro di essere felice, anche quando il suo cammino è diverso dal nostro. È un sentimento disinteressato che nasce dalla volontà di donarsi, di offrirsi completamente dal profondo del cuore. Per questo, l’amore non sarà mai fonte di sofferenza.

Quando una persona dice di aver sofferto per amore, in realtà ha sofferto per aver voluto bene. Si soffre a causa degli attaccamenti. Se si ama davvero, non si può stare male, perché non ci si aspetta nulla dall’altro. Quando amiamo, ci offriamo totalmente senza chiedere niente in cambio, per il puro e semplice piacere di “dare”. Ma è chiaro che questo offrirsi e regalarsi in maniera disinteressata può avere luogo solo se c’è conoscenza. Possiamo amare qualcuno solo quando lo conosciamo davvero, perché amare significa fare un salto nel vuoto, affidare la propria vita e la propria anima. E l’anima non si può indennizzare. Conoscersi significa sapere quali sono le gioie dell’altro, qual è la sua pace, quali sono le sue ire, le sue lotte e i suoi errori. Perché l’amore va oltre la rabbia, la lotta e gli errori e non è presente solo nei momenti allegri.

Amare significa confidare pienamente nel fatto che l’altro ci sarà sempre, qualsiasi cosa accada, perché non ci deve niente: non si tratta di un nostro egoistico possedimento, bensì di una silenziosa compagnia. Amare significa che non cambieremo né con il tempo né con le tormente né con gli inverni.

Amare è attribuire all’altro un posto nel nostro cuore affinché ci resti in qualità di partner, padre, madre, fratello, figlio, amico; amare è sapere che anche nel cuore dell’altro c’è un posto speciale per noi. Dare amore non ne esaurisce la quantità, anzi, la aumenta. E per ricambiare tutto quell’amore, bisogna aprire il cuore e lasciarsi amare.

«Adesso ho capito» – rispose la rosa dopo una lunga pausa.

Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry

Il “Piccolo Principe” è un testo quasi iniziatico, da leggere e da studiare, c’è poco che si possa aggiungere o togliere dagli insegnamenti che ci lascia in eredità.

Ho scritto molto spesso dell’amore avendo tra le mie basi proprio questo testo.

Se devo trovare un precisazione a questo passo è forse che non considero il “voler bene” una forma di amore inquinata dalle aspettative o dalle proiezioni.

Ma penso che qualunque aspettativa o proiezione inquini ogni cosa, corrompa e tramuti qualunque sentimento positivo in brutale forma di egoismo.

Tutto qui, senza fronzoli o appello: se non accogliamo l’altro per ciò che è lo stiamo solo usando per i nostri fini egoistici.

E allora cosa è “voler bene” nel mio vocabolario è un po’ meno di quanto dica il Piccolo Principe dell’amore, laddove l’amore, per come lo vedo io, è molto di più, qualcosa che trascende il nostro stesso senso di umanità biologica, qualcosa che ci proietta su una scala diversa dove la nostra individualità va in secondo piano.

È raro amare, non c’è da farsene un cruccio, ma è facile voler bene in maniera pulita, come il Piccolo Principe ama la rosa.

Ecco se da un parte dobbiamo cominciare, impariamo a voler bene senza proiettare, senza aspettative, senza nulla che non sia considerare l’altro.

Quando manca il limite


Will Smith schiaffeggia Chris Rock alla notte degli Oscar: chi ha ragione?

Da una parte il comico prende in giro la moglie di Smith per i capelli rasati (dovuti alla alopecia, una malattia che fa perdere i capelli), dall’altra Smith ricorre alla violenza.

C’è chi dice che ha ragione Rock, perché in fondo era lì per far ridere secondo il suo stile aggressivo, e Smith lo sapeva.

C’è chi dice che ha ragione Smith, perché sono stati toccati i suoi affetti.

A mio parere è uno schifo: siamo di fronte a due torti e pochissime ragioni.

Intendiamoci: sì certo Rock fa il comico e tutti quelli dello spettacolo lo sanno com’è, e se non ti va non ci vai o non ti metti in prima fila, ma d’altro canto Smith era un candidato agli Oscar, dove doveva stare?

E sì certo, questo non autorizza nessuno ad usare la violenza, ma cosa doveva fare?

Stare in silenzio e subire? Cioè davvero approviamo che un comico possa fare il bullo? Comico e buffone non è la stessa cosa. Il primo è un libero professionista, il secondo un servo.

Oppure alzarsi e rispondere per le rime? Sì beh sarebbe figo, ma sul serio? Inizi una battaglia nel campo dell’avversario con le tecniche dell’avversario?

Oppure alzarsi e dirgli semplicemente che il suo comportamento è stato inopportuno e offensivo?

Questa opzione mi piace già di più, ma manca una cosa: il fatto che sia chiaro che se prendi in giro chi è in difficoltà non è comicità, ma discriminazione.

Manca in America e manca anche in Italia, e quindi alla fine penso che sì, Smith ha sbagliato più di Rock, ma più ancora ha sbagliato la società civile a non darsi delle indicazioni che facciano capire cosa fa ridere in modo sano e cosa è discriminazione o bullismo.

Cosa vuol dire ascoltare?


Ascoltare vuol dire capire quello che l’altro NON dice. [Carl Rogers]

Io direi che sarebbe già tanto se si iniziasse a capire quello che l’altro DICE.

Intendiamoci, Rogers non sta dicendo bischerate, lui sta alzando l’asticella, ci stimola ad andare oltre, ma…

Come sempre c’è un ma, perché spesso non ci si capisce.

Chi riceve il messaggio non ci presta attenzione oppure guarda altre cose, si fa traviare dalla componente non verbale e si perde il verbale.

Quando si dice che il 90% della comunicazione è non verbale è vero, ma non sta scritto da nessuna parte che sia una cosa buona.

L’abitudine a farsi distrarre da informazioni accessorie del messaggio è un problema.

Ricordo un aneddoto interessante: in un workshop Gianni (nome di fantasia) e Pinotto (davvero devo specificare che è di fantasia?) inscenano uno scambio lavorativo.

Gianni comunica un messaggio inerente a qualcosa da fare a Pinotto.

Gli uditori hanno unanimemente criticato la modalità di comunicazione di Gianni, considerata troppo dura e scontrosa, quasi maleducata.

Finché il buon Pinotto, fece notare che per lui non c’era nulla di tutto questo e che anzi, la comunicazione era stata precisa, puntuale e ben argomentata.

Cosa è successo? Gianni e Pinotto si sono concentrati sul contenuto, non gli interessava minimamente guardare altro (in quel momento).

Gli altri erano distratti.

E questa distrazione inconsapevole, finisce per creare aspettative (come sempre) che trovano un terreno fertile nelle parole di Rogers.

Però il messaggio diventa che se l’altro ascoltasse saprebbe capirmi, mentre il messaggio di Rogers vuole dire che se tu imparassi ad ascoltare veramente, capiresti quello che l’altro vuole dire, e anche quello che vorrebbe dire ma non può.

Fino ad arrivare forse a comprendere quello che l’altro vuole nascondere quasi fantascienza, però diciamo che in linea teorica potrebbe pure succedere…

E quindi tornando a bomba, un ascolto completo, tipo che sei il campione mondiale di ascolto, significa (in questo esatto ordine) che:

  1. capisci quello che l’altro dice
  2. capisci come lo dice
  3. capisci perché lo dice
  4. capisci cosa vorrebbe dire
  5. capisci cosa non vuole dire

Molto spesso non si è in grado di fare nemmeno il primo degli esercizi…

La montagna è aliena


La montagna è sempre aliena.

Torreggia sprezzante sui nostri limiti.

La montagna non siamo noi, nessuno di noi può essere o contenere in sé la montagna.

La montagna è il limite; del singolo, ma non del gruppo.

La montagna non perdona: è una sfida continua e non ama gli sbruffoni, ma sopporta di buon grado, spesso con bonario affetto, gli uomini che sanno condividere il proprio giardino interiore con altri uomini per onorarla.

La montagna apprezza l’amicizia e l’accortezza del rispetto.

Se il deserto insegna ad essere uomini, la montagna insegna ad essere gruppo, squadra, amici.

Il deserto è dentro di noi


il deserto è dentro di noi.

Ce lo portiamo appresso con la disinvolta inconsapevolezza dell’egoismo.

Il deserto siamo noi.

L’arida desolazione impossibile da colmare con tutto quello che cerchiamo.

Per questo il deserto, quello vero, ci colma, ci riempie.

Nel vuoto esteriore impariamo a riempire quello interiore.

Per trovarci dobbiamo abbandonarci al deserto, smettere di chiedere per iniziare a trovare.

Il deserto è dentro di noi finché non lo incontriamo fuori e decidiamo di trasformare quello dentro di noi in un giardino fiorito.

Di sogni, di ricordi e altri perdimenti


La luce rallenta e si gonfia trapassando i veli d’organza, rotolando scomposta sul nudo della tua pelle.

Ne seguo l’ordito cercando di intuirne il genio, come quando confuso tenti comprensione di fronte al drago di carta ripiegata.

Origami.

Di carta e non.

Quante cose vorrei spiegarti, quante vorrei tu già sapessi, senza bisogno di parola.

Di quanti intrecci sovrapposti son fatte le nostre vite.

Ma tu dormi, cheta e placida, mentre io da lungi ti spero e rubo a delinquere ricordi di te.

Volgi il labbro appena imbronciato al mio sguardo e il tuo volto mostra nuove prospettive.

Come una corolla sbocci rivelando la trama sensuale del tuo corpo languido. 

Immagino il profumo di fresia selvatica che ti avvolge e si espande al tepore del meriggio.


Lei si gira e si rigira attorcigliandosi il lenzuolo tra le gambe: ultimamente le capita di fare incubi e dimenarsi nel letto per tutta la notte divisa tra  desideri e mancanze. Si sveglia di soprassalto tutta sudata. 

Il cinguettio degli uccelli che entra dalla finestra la esorta ad alzarsi.

Si incammina malferma verso una calda doccia profumata.   

L’acqua le scivola addosso togliendole l’umido di una lunga notte agitata e lavandole la mente da pensieri surreali. 

“Sono proprio io?” si domanda. Gli intrighi che le scorrono come immagini al rallentatore le sembrano frutto di qualcun altro. Si guarda allo specchio scrutando nel profondo dei propri occhi cercando conferme; o smentite. 

È avvolta in un sottile telo color del sole che le aderisce al corpo disegnandone ogni tratto.

Mentre è in camera da letto per vestirsi, per un attimo avverte come una presenza, qualcuno che la osserva. Si volta repentina verso la finestra in preda al dubbio di essere vista: nessuno. Che strana sensazione!

Chiude l’ultimo bottone della camicetta di seta bianca e indossa il suo braccialetto di cuoio preferito. Quasi lo accarezza prima di chiuderlo al polso.

Prende due bicchieri di acqua e li mette a bollire nella pentola. Nel frattempo ha riempito un bicchiere di cenere: la aggiungerà all’acqua bollente e aspetterà un paio di ore per filtrarla e ricavarne la liscivia.

La prepara abitualmente, come faceva sua nonna, e ogni volta il pensiero segue le tracce del loro vissuto. 

Si affaccia sul balcone per assorbire un po’ di energia solare: chiude gli occhi col volto rivolto al sole e sente la luce e il calore che la invadono. Pochi istanti, poi riapre gli occhi e fa il giro di ricognizione tra il suo giardino verticale: tulipani, roselline, aloe, asparagi, fragole; c’è un po’ di tutto. Improvvisamente si ricorda che doveva terminare quella ricerca sulla biodiversità, così corre al pc per collegarsi al portale “Prodromo della vegetazione italiana”.


Ambrogio osserva la signora: è molto bella e sofisticata e sensuale e così maledettamente idiota.

Un tempo, le avrebbe suscitato pensieri voraci, ma da allora, fortunatamente era cresciuto ed era felice del rapporto con suo marito… anzi no: compagno, in quello sciocco paese retrogrado i matrimoni tra persone dello stesso sesso non erano riconosciuti.

Un popolo che pensa di normare i sentimenti è un popolo arido, morto, che si attacca a slogan senza mai fare lo sforzo di viverli.

Ma sì. Niente di nuovo sotto il vecchio sole che in questi paraggi scalda la testa ma non l’intelletto.

Prendiamo lei: così tronfia di insoddisfazione e ricordi di tempi andati, da non riuscire a guardare al presente, a ciò che le si offre, sempre alla ricerca di ciò che manca senza accogliere ciò che giunge.

Ambrogio inizia a spazzare l’inguacchio di terriccio lasciato dalle poche capacità giardiniere della signora; con la scopa, rigorosamente in saggina, come faceva la bis trisavola da parte di padre della padrona.

E che dire di quel pudico guardone? Innamorato perso che la osserva quasi ogni giorno, ma distoglie lo sguardo dalla sua nudità vera; le avrà mai visto un seno? Almeno per sbaglio?

Ambrogio non crede.

Due vite che scivolano come sabbia in una clessidra forata, lei persa nel passato, lui perso in un futuro che non ha il coraggio di afferrare.

Vorrebbe compatirli, provare un sentimento, ma la realtà è che gli sono indifferenti: non lo tangono.

Mentre si cambia, si chiede se sia colpa degli anni, delle esperienze o di chissà che altro.

Gli fa paura questa insensibilità, questo non provare; ha paura di diventare come tutti gli altri: una voce dietro uno slogan e nient’altro.

Poi giunge a casa, Roberto lo abbraccia; non lo fa sempre, ma nella giusta quantità perché non si crei mancanza né assuefazione.

E in quell’abbraccio capisce, o meglio ricorda, che non è aridità la sua, ma la semplice serenità di chi un posto nel mondo l’ha trovato: non puoi salvare chi non si vuole salvare; inutile piangere su di loro.


Composto in collaborazione con Virtuosamente.

Stella di ringhiera


Corro, fuori dalla domestica galera,
corro e mi disseto con i sorrisi
della bianca stella di ringhiera,
profumi tronfi e bonari incisi
nel ricordo: salvacondotto alla melanconia
del dopo. Corro in contro al meriggio
del bosco campestre cercando sintonia
tra l’arranco fiacco e’l capriccio
dell’anima che nuovamente vuole
volare sopra volti, tetti e aiuole.


P.S.
La stella di ringhiera, è il gelsomino delle azzorre.

Una notte dissennata


Prendendo per levante, passando per il ponte di Carlo, si giunge alle dimore degli assassini di dio.

Diffidenti, falsi, ladri e ingordi, ti accolgono con ampi sorrisi mentre soppesano l’equivalente in oro delle libbre del tuo cuore.

Ma potresti non accorgertene, vagando spensierato nel vociare gaudente di un giorno assolato, o rapito dal tetro romanticismo piovano.

Di giorno, potresti non notare, o scambiare per singolare deferenza, il vuoto silenzio del camposanto di quartiere.

E altro non vedresti, perché di notte non ci si avventura nello Josèfov e di giorno ti sa irretire.

La sorte mia avversa, di cui non dirò, mi trascinò mio malgrado durante la sciagurata notte del settimo plenilunio nel più inumano tra i siti di quel maledetto luogo: il nichilente cimitero.

Vidi allora, con il collo scosso dal martellare del sangue, nascosto in un’edicola funebre, l’impensabile.

Giunsero, avvolti in lunghe cappe nere, 12 figuri, lugubri ed emaciati, da sotto il cappuccio spuntavano solo la punta del naso e del mento, entrambi affilati per lo più. Di alcuni indovinai una barba corta e pettinata.

Si disposero a cerchio intorno ad una tomba abbandonata da cui sorgeva un tentacolare olmo.

Uno di loro si mosse e tracciò con della polvere, forse gesso, quello che mi parve un pentacolo.

Finito che ebbe, tornò al suo posto e con gli altri iniziò a salmodiare in una lingua che non intesi.

Il tono saliva e si abbassava, ora stridulo e fine, ora ampio e profondo.

Non so dire quanto durò, non riuscivo a muovere un muscolo, certo che la mia vita non avrebbe valso un fondo di tabacco; tuttavia doveva avere un senso e un fine, perché d’improvviso cessò.

Quando osservai di nuovo la scena un tredicesimo individuo si era unito.

Si posizionò al centro e slacciatosi il mantello rivelò una tonaca rosso sangue; da sotto il cappuccio li guardava e dominava con occhi abbacinanti.

Li interrogò con un gesto del capo uno ad uno, e uno ad uno raccontarono l’avanzamento dei loro progetti nefasti.

Nulla sembrava lasciato al caso, sebbene non compresi tutto, capii che ogni singolo stato era coinvolto, o lo sarebbe stato in breve una volta che il loro esecrabile piano fosse stato messo in atto.

Nulla si sarebbe salvato, tutta l’Europa e financo l’Asia e le Americhe sarebbero cadute…


Tutto questo potrebbe ricordarti qualcosa, il gioco è proprio capire cosa!

Di sistemi politici e di filosfi


Riporto qui una ricostruzione quanto più fedele di un bellissimo scambio avuto con un utente su Quora.

Al fine dell’articolo riformulo il quesito originario e taglio la risposta limitandomi a ciò che ha fatto scaturire il confronto.

La risposta originaria è leggibile direttamente su Quora.

Il post sarà lunghetto ed è costituito dal dialogo tra me (in rosso) e l’altro utente (in blu).

Quesito: Se un filosofo si schiera politicamente è incoerente?

[..] Ciò nonostante, lo spirito della domanda è interessante: può un filosofo fare politica, restando filosofo? Può schierarsi a favore di un’ideologia politica?

Queste domande attraversano la storia del pensiero fin dall’allegoria della Caverna. Qual’è il senso dell’ultimo passaggio di questa allegoria? Forse è proprio questo : dopo aver contemplato le Idee, può il filosofo tornare a “sporcarsi le mani” con la politica? Non ci sarà sempre uno scarto tra l’Idea contemplata e la realtà della polis?

Fuor di metafora, il problema è relativo allo schierarsi del filosofo: l’esercizio del pensiero dovrebbe apprendere, a quest’ultimo, a prendere delle distanze da ogni posizione politica. Ognuna di queste posizioni si inscrive, di fatto, in tesi più ampie, e in più vaste opposizioni tetiche e concettuali. Ora, il filosofo dovrebbe sapere che tutte le tesi – e tutte le argomentazioni che le giustificano – hanno i loro vantaggi e i loro punti deboli. Schierarsi in favore di una posizione politica, significa ignorare deliberatamente quei punti deboli – il che è piuttosto problematico per un filosofo. Inoltre, il filosofo dovrebbe cercare di ragionare senza preconcetti; ma l’adesione a un partito politico, o a un’ideologia politica, implica l’accettazione di certi preconcetti.

D’altro canto, tirarsi fuori dalla politica significa – mi pare- tradire lo spirito della filosofia stessa: a cosa servirebbe la riflessione filosofica, se non ambisse a avere un qualche impatto sulla vita in comune degli esseri umani? O magari il filosofo dovrebbe relegare la sua riflessione a temi che non implicano la vita politica (l’epistemologia della matematica, per esempio; o la teoretica pura). Ma chi glielo ordina ? Il rischio è quello di chiudersi in una torre d’avorio, e rinunciare a qualsiasi tentativo di cambiare le cose. Il che, tra l’altro, non manca di avere delle risonanze già politiche: un’accettazione conservatrice dello status quo.

Per ritornare alla domanda, risponderei cosi : in realtà, lo schierarsi del filosofo in politica è esso stesso un problema filosofico. Poiché ogni problema filosofico oppone due o più tesi argomentabili, voilà come appare il problema:

  1. Il filosofo non puo e non deve schierarsi politicamente ; in effetti, ogni posizione politica si inscrive in tesi più ampie – tesi di cui il filosofo dovrebbe conoscere, non soltanto i pregi, ma anche i punti deboli. Il ruolo del filosofo implicherebbe, quindi, una sorta di equidistanza rispetto ai vari schieramenti politici. Difetto di questa tesi : rischio di chiudersi in una torre d’avorio, e di rinunciare a qualsiasi tentativo di cambiare le cose.
  2. Il filosofo puo e deve schierarsi politicamente ; in effetti, la riflessione filosofica mira ad avere un qualche impatto sulla vita in comune degli esseri umani. Filosofare, significa anche voler cambiare le cose, e l’inazione finisce spesso per coincidere con il conservatorismo. Difetto di questa tesi : rischio di incoerenza rispetto al ruolo stesso del filosofo; necessaria adesione a presupposti.

Voilà.

[..]ho una domanda/approfondimento.

Mi pare che possiamo ormai asserire che una ideologia (qualunque essa sia) è irrealizzabile e qualunque tentativo porti a degenerazione, per varie cause ma che in poche parole possiamo sintetizzare con “natura umana”, cioè non siamo dei robot e ognuno si muove in maniera diversa con la comprensione che ha del mondo, anche qualora si abbracci la stessa ideologia della classe politica.

C’è un parallelo che osserva i sistemi di governo (cioè l’implementazione di una ideologia) dal punto di vista della teoria dei giochi.

In questo contesto appare evidente che il comunismo “aulico”, che può essere riassunto con “ognuno fa il meglio per sé e per la società, demandando ad un governo centrale le iniziative per accrescere il potenziale e il soddisfacimento di tutti e della società”, fallisca per mancanza di regole implementative chiare: è tutto molto bello ma nebuloso.

Viceversa il capitalismo, che in poche parole dice “vince chi ha di più (soldi), allo stato il compito di governare e modificare le regole condivise”, per quanto triviale offre un sistema di gioco molto semplice ed efficiente su cui è facile aggiungere “espansioni” quali la sostenibilità. lo stato sociale, l’imprenditoria eccetera.

Se si accetta questo parallelo (ma anche le valutazioni di politica economica) il fare politica diventa una attività diversa dal fare filosofia e quindi il paradosso si scioglie perché nulla vieta ad un individuo di esercitare due attività: forse che un cantante non possa essere anche pittore o matematico o politico?

Cosa ne pensi?

Allora, direi che è molto interessante questo parallelo, ma non sono sicuro di capirne lo scopo.

In pratica, ciò che proponi sarebbe di scindere filosofia e politica, considerando la seconda come una pura tecnica retta da principi di efficienza; praticare questa tecnica nei limiti di un sistema di produzione capitalista (il solo che, tenendo conto del modello tratto dalla teoria dei giochi, sarebbe ottimale).

Ho capito bene?

Se sì, personalmente avrei qualche obiezione.

Rispondo per punti:

  1. sì sulla scissione, no sul “solo da principi di efficienza”, gli ideali non sono da deprecare, tuttavia un ideale senza uno scarico pratico è un ideale inutile (nel senso di non usabile). Il nostro corpus normativo, se guardiamo a costituzione e norme generali è un esempio (mooooooolto migliorabile) di come si può tradurre un ideale in qualcosa di concreto (può essere che serva sviscerare cosa intendo per migliorabile se scendiamo nei dettagli)
  2. no assolutamente. Intendo: il praticare questa tecnica all’interno di un sistema che abbia regole fondanti semplici (non più di 5 di solito) e un insieme di regole a corollario chiare, condivise, non cavillose. Il capitalismo è solo un esempio di come un ideale mal messo funzioni meglio ai fini pratici (che già chiamarlo ideale è un po’ una forzatura).

[..]

[..]

  1. Questo punto mi pare contraddittorio: tu dici “no sul ‘solo da principi di efficienza’”, poi dici che il principio di selezione degli ideali è quello dell’utilità e dell’usabilità. Ora, mi pare che in questo contesto, utilità, usabilità ed efficienza facciano tutti parte dello stesso campo semantico: è utile/usabile/efficace ciò che può essere un mezzo adeguato per pervenire a un fine preciso. Quindi, dati questi presupposti, mi pare che la politica resti una tecnica basata su soli principi di efficienza.
  2. Questo punto mi è più chiaro. Ma non capisco perché il capitalismo dovrebbe funzionare meglio ai fini pratici: perché ha poche e semplici regole fondanti?
Ok parliamo di gerarchie normative 🙂

L’assioma fondante è: in un contesto pratico, qualunque idea è inutile se non è implementabile nel contesto di riferimento.

E fin qui hai ragione.

Ma, e questo è il punto fondamentale, l’assioma non mira ad escludere gli ideali, al contrario, richiede solo di coniugarli in azioni concrete.

Facciamo un esempio: la fiducia.

Questo è un elemento importante con svariate applicazioni anche pratiche, Tuttavia le norme, per quanto la prevedano, non la tutelano, perché è pressoché impossibile farlo.

Allora va esclusa? Non è detto.

In questo caso occorre lavorare sulla cultura, in modo che la famosa “stretta di mano” si trasformi in un’abitudine dallo stesso significato ma verificabile.

All’atto pratico conosco alcuni esempi, ma sono partiti tutti dal rimuovere l’accordo verbale, lasciando poi che si “generasse” una nuova consuetudine.

Per esempio la Apache Foundation ha una semplice regola: “ciò che non è discusso nella MailingList non esiste”, non può essere preso in considerazione. Questo non ha eliminato l’accordo verbale tra sviluppatori, ma li ha forzati a riportare la loro discussione entro il canale ufficiale una volta chiaritisi.

Quindi l’ideale rimane e ha una implementazione concreta.

[“Gerarchie normative” è termine che indica la struttura piramidale che parte dai principi fondati (ideali e simbolici) e poi si struttura a discesa in norme e regole (ci sarebbe da dettagliare meglio i passaggi ma non credo serva). Il punto è che, essendo gerarchica, una regola di livello 4 non può contraddirne una di livello 3, il che conduce alla necessità di introdurre una interpretazione autentica qualora la regola di livello 4 debba normare un caso speicale [che va] in apparente contraddizione (che deve essere chiarita nella interpretazione).]

Sul capitalismo: sì essenzialmente perché le regole sono più chiare, per cui è palese e verificabile lo scopo del gioco e ognuno può valutare il proprio livello di successo.

Allora, mi pare di aver capito, ma ho ancora dei dubbi:

  1. Tu insisti sul fatto che gli ideali non siano da escludere. Ma non mi pare che questo fosse l’oggetto del dibattito: inizialmente, ho detto che, nel modello da te proposto, la politica sarebbe une tecnica retta da soli principi di efficienza. Questo NON esclude a priori gli ideali; ma esclude gli ideali giudicati inutili – ossia, come dici tu, quelli non implementabili nel contesto di riferimento. Quindi, è pur sempre un principio di efficienza che regge tutto il modello. Per riassumere: tu hai contestato l’idea che fosse un principio di efficienza a reggere il modello di “politica” da te proposto; per far ciò, hai mostrato che gli ideali non sarebbero esclusi dal modello. Ma la questione non è tanto la presenza o l’assenza di ideali, quanto la norma alla quale questi ideali devono gerarchicamente sottostare per essere ammessi: ora, questa norma continua a essere quella dell’efficienza.
  2. Detto ciò, mi chiedo: quali criteri determinano se un ideale sia, o no, implementabile nel contesto di riferimento? E soprattutto: la non-implementabilità di un ideale nel contesto di riferimento non potrebbe condurre, appunto, a una rimessa in causa del contesto di riferimento stesso? Prendiamo l’ideale Y (mettiamo, “pari diritti”); a prima vista, questo ideale non sembra implementabile nel sistema di riferimento X. Eppure c’è chi potrebbe obiettare: bene, ma appunto il problema è il sistema di riferimento X. Occorre quindi cambiare il sistema di riferimento X, per poter implementare l’ideale Y.
  3. Questo mi porta a dire che il ragionamento basato sul contesto di riferimento è già “politicamente connotato”, e tende verso un certo conservatorismo – poiché, appunto, il criterio per determinare l’ideale implementabile è il sistema di riferimento, che si suppone invariato e invariante.
Per punti:

  1. Sì corretto, volevo solo sgomberare il campo da eventuali equivoci.
  2. Formalmente il tema che porti è corretto, ma nella pratica si può semplificare
  3. poiché il contesto non è inteso come sistema di riferimento (comunismo, capitalismo ecc), ma “la gestione della cosa pubblica” quindi se vuoi un metacontesto o metamodello.

Ovviamente (e torno al punto 2) si può opinare che occorre capire cosa entra nella gestione della cosa pubblica e cosa no. Ma anche questo aspetto è parte degli interessi che il metamodello contempla.

Ne consegue che un modello reale che non abbia un meccanismo di valutazione di cosa è “cosa pubblica e cosa no” è un modello scarso.

Tuttavia, l’implementazione [..] del metamodello in un modello (contesto) concreto è atto in sé politico (come ogni atto umano del resto), su questo hai ragione.

Non a caso parlo di validità dei modelli e lo faccio valutandone le performance pratiche (un po’ ricalco Popper, però insomma è solo una suggestione).

Il fatto che il modello sia conservativo o meno dipende dalla sua implementazione (beh un po’ tutti lo sono, si può anche chiamare burocrazia).

Però attenzione, il fatto che un modello non sia in grado di accettare (assorbire) un ideale indica solo che il modello è lacunoso, non inficia la validità dell’ideale.

Se da un lato gli ideali devono essere coniugati operativamente, il modello deve consentire che siano coniugati.

La capacità di assorbire un nuovo ideale, è intimamente connessa alla vitalità e quindi all’abilità di adattamento del modello stesso.

Ok ho afferrato.

Quindi sarebbe cosi’, secondo un ordine gerarchico:

  1. Metamodello : gestione della cosa pubblica
  2. Modello : capitalismo/comunismo/altre opzioni

Ma la cosa che mi sfugge, in questo schema, è il suo fine ultimo: inizialmente, credevo che il fine fosse quello di espungere il più possibile delle “considerazioni di valore” dal campo politico – attraverso una formalizzazione che le sostituisca con considerazioni di tipo prettamente “funzionale”. Solo in tal modo, in effetti, tutto il ragionamento – dall’inizio alla fine – permetterebbe di ben distinguere il mestiere di filosofo e il mestiere di politico.

Ma, mi sembra, il risultato è piuttosto un altro: tu proponi una formalizzazione che permette di cogliere le relazioni tra le varie entità e norme nel modello e metamodello; proponi inoltre dei criteri per valutare la robustezza del modello. Se ho ben capito, ciò che tu proponi è pura FORMA: i CONTENUTI sono assenti.

Il problema è proprio questo: i CONTENUTI implicano delle considerazioni di valore, e il quadro che proponi potrebbe funzionare con i contenuti più diversi, e dar luogo a varie opzioni – tra le quali un modello comunista non sarebbe nemmeno da escludere.

E qui mi dirai: si’, ma appunto, il modello comunista funziona peggio, poiché i suoi CONTENUTI, troppo imprecisi, non si implementano correttamente nella FORMA. Il modello capitalista, invece, funziona meglio.

Se, fin qui, pensi che io abbia ragione, bisognerà allora spiegarmi meglio perché i contenuti del modello comunista sarebbero più imprecisi di quelli del modello capitalista.

Sì ma c’è un aspetto in cui non mi ritrovo.

Forma e contenuti non sono così distinguibili.

O meglio: io non parlo di forma fine a sé stessa, ma capacità di tradurre un contenuto in un’azione pratica.

Qui si distingue il politico dal filosofo (vabbè un po’ troppo semplicistica).

Intendo dire che nel fare politica occorre valutare la situazione contingente, nell’ambito di un contesto normativo e culturale (modello) ma anche economico (tempi e costi).

Al politico è chiesto di trovare soluzioni o costruire strategie (agire sulla cultura).

In questo senso l’attività è molto diversa.

Banalizzando (ma poi mica tanto) anni fa scherzavamo dicendo che invece di raccontarci slogan, i politici dovrebbero mostrare un businss plan e un business model a partire da dati economici (e non solo) comuni.

Ora quindi dove sta la distinzione? Non tanto nei contenuti che sono sempre presenti, ma nella finalità che i contenuti hanno (il che, citando per una volta a proposito Machiavelli, ne giustifica la scelta).

I contentui del modello comunista non sono più imprecisi, ma lo è la loro rappresentazione implementativa.

Faccio un esempio banale, ieri giocando a “saltimmente” esce la categoria “cose fredde”.

Sembra banale, ma cosa è una cosa fredda? Una cosa che abitualmente è in frigo è fredda? Una cosa che conduce il calore, per cui risulta fredda al tatto? Ecc.

Dire una “cosa fredda” è un contenuto, intuitivamente lo capiamo tutti, ma quando lo devi valutare in un contesto chiaro che non consenta sotterfugi (ok il gioco spinge anche per i sotterfugi) va descritta meglio.

[..]

Ok ora è tutto più chiaro.

E effettivamente Machiavelli non è citato a sproposito, poiché la frase “nel fare politica occorre valutare la situazione contingente, nell’ambito di un contesto normativo e culturale (modello) ma anche economico (tempi e costi)” è esattamente il sunto del pensiero dell’autore – almeno nel Principe.

Ed è vero che “I contenuti del modello comunista non sono più imprecisi, ma lo è la loro rappresentazione implementativa”: già in Marx vi sono alcune ambiguità nella realizzazione dell’ideale comunista nel reale – ambiguità che riposano, alla fine dei conti, sul fatto che Marx non ha mai esplicitato 1) chi fa la Rivoluzione: il Capitale o il Proletariato? 2) Come si passa dalla dittatura del proletariato al comunismo vero e proprio?

Ma, d’altro canto, alcune cose mi paiono ancora poco chiare:

  1. La rappresentazione implementativa del comunismo è ESSENZIALMENTE imprecisa, o solo ACCIDENTALMENTE? Da come la poni tu, sembra che essa lo sia essenzialmente; ora, si potrebbe pensare che tutta una serie di contingenze l’abbiano resa imprecisa nel passato, senza che ciò precluda la possibilità, in futuro, di precisare questa rappresentazione.
  2. È vero, come dicevi tu nel tuo primo commento, che nulla vieta a un cantante di essere anche un matematico. Ma qui le cose mi paiono un po’ diverse: consideriamo un cantante i cui testi inneggino all’amore della natura; ora lo stesso cantante è l’azionario più importante dell’impresa più inquinante d’Europa. Ciò lo screditerebbe non poco mi pare; lo si accuserebbe di incoerenza. Ora, prendiamo il filosofo schierato in politica (quello del secondo volet del problema che avevo rilevato nella risposta): se prende partito per una certa ideologia politica, e se le esigenze del suo business plan lo portano, sul piano politico, a fare l’inverso di questa ideologia, non perderà, anche lui, ogni credito (almeno in quanto filosofo)? Prendiamo adesso un filosofo che non si schieri per alcuna parte politica: almeno non correrà i rischi di incoerenza del suo compare. Ma questo rifiuto della politica non sarà, pure lui, condannabile?

In pratica: a me pare che, da qualsiasi lato si guardi la cosa, il problema del filosofo schierato si ripresenti sempre, con i suoi due volets irriducibili.

=1=

Dunque, il comunismo è essenzialmente impreciso, ma è colpa di Marx che ha mischiato idee, ideologie e ipotesi implementative tutto insieme.

Se facciamo opera di separazione potremmo riassumere dicendo che: la morale è più o meno la stessa della maggiori religioni dell’epoca (dio a parte), ci aggiunge il concetto che il metro di uguaglianza è il valore economico (in teoria destinato a evolvere in forme diverse dal denaro).

Partendo da questi infrastruttura ideologica (che ho riassunto troppo, lo so, ma tanto per capirci) beh allora l’implementazione del comunismo è imprecisa accidentalmente; assolutamente accidentalmente.

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Almeno l’incoerenza fosse perseguibile…!

Scherzi a parte, il cantante che proponi è un caso limite (anche se in altri stati un’incoerenza morale costituisce un danno reputazionale molto grave).

Però il rischio di “conflitto di interesse” permane in ogni caso, epperò non vi è certezza, qui il mio pensiero diverge: dipende come la persona affronta la cosa (e anche come il modello la affronta!).

Cioè i due punti iniziali si ripropongono sempre ma non sono uno dei due possibili esiti, ma solo due problemi da risolvere.

In realtà manca un aspetto che a questo livello di analisi non è più omissibile: l’amministrazione di uno stato, l’indirizzo di governo, è una attività con molti vincoli e deve avere uno realizzazione pratica, e tutto ciò consente per lo più di distinguere facilmente i due ruoli (belli i sogni ma si mangia con i soldi che si ha in tasca); tuttavia nell’indirizzo culturale, nella visione “strategica” o “creativa” del futuro di un popolo i ruoli si confondono e in questo esercizio non è ammissibile nessuna incoerenza tra i due (tuttavia è richiesto, di nuovo, di saper immaginare anche l’implementazione pratica).

In quest’ultimo aspetto i tuoi 2 volet sono sì uno stato finale, ciò non di meno mi pare sia l’attività più eminentemente filosofica della politca.

Ok ho capito.

Praticamente, tu scindi il problema per ottenere un risultato basato, non più sulla figura del filosofo engagé, ma sul tipo di indirizzo in sé.

Indirizzo di governo (filosofo/politico): ⇒ qui è più facile distinguere i due, sapendo che si daranno per scontate le esigenze di governo, e i compromessi che il filosofo deve affrontare in quando governante.

Indirizzo culturale (filosofo – politico): ⇒ qui invece dev’esserci continuità tra le due figure, nel senso che, in quanto “agente culturale”, il filosofo è chiamato alla coerenza rispetto alle scelte politiche, e il politico, rispetto alle posizioni filosofiche.

Ho capito bene?

Esatto

Mi pare che sia una buona maniera di prendere il problema allora 🙂

Aspettate a donare il sangue!!


Sì, lo so, i media dicono altro.

Sono appena stato a donare (Avis di Novara), il medico che mi ha fatto la visita preliminare mi ha ha fatto notare che in realtà non era il momento migliore per donare.

Poiché le sale operatorie sono a ritmo ridotto, anche l’uso di sangue è ridotto (si usa, ma meno del solito).

Il vero boom di sangue ci sarà quando riaprono le sale operatorie: meglio allora conservarlo per un mesetto.

Non so nelle altre zone quale sia la situazione, quindi il consiglio è semplicemente di chiamare e informarsi.

Consiglio aggiuntivo: chiedi espressamente se il tuo sangue serve ora o è meglio attendere.

Ah, tra l’altro, non viene effettuato il tampone prima della donazione, ti provano la febbre, questo sì, ma niente tampone (beh mi pareva strano visto il costo e i tempi di gestione).

Se hai notizie diverse o un link dove vengono raggruppate segnalamelo nei commenti!

E se puoi diffondi l’avvertimento!

Spizzichi di colore e altre emergenze