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Di sogni, di ricordi e altri perdimenti


La luce rallenta e si gonfia trapassando i veli d’organza, rotolando scomposta sul nudo della tua pelle.

Ne seguo l’ordito cercando di intuirne il genio, come quando confuso tenti comprensione di fronte al drago di carta ripiegata.

Origami.

Di carta e non.

Quante cose vorrei spiegarti, quante vorrei tu già sapessi, senza bisogno di parola.

Di quanti intrecci sovrapposti son fatte le nostre vite.

Ma tu dormi, cheta e placida, mentre io da lungi ti spero e rubo a delinquere ricordi di te.

Volgi il labbro appena imbronciato al mio sguardo e il tuo volto mostra nuove prospettive.

Come una corolla sbocci rivelando la trama sensuale del tuo corpo languido. 

Immagino il profumo di fresia selvatica che ti avvolge e si espande al tepore del meriggio.


Lei si gira e si rigira attorcigliandosi il lenzuolo tra le gambe: ultimamente le capita di fare incubi e dimenarsi nel letto per tutta la notte divisa tra  desideri e mancanze. Si sveglia di soprassalto tutta sudata. 

Il cinguettio degli uccelli che entra dalla finestra la esorta ad alzarsi.

Si incammina malferma verso una calda doccia profumata.   

L’acqua le scivola addosso togliendole l’umido di una lunga notte agitata e lavandole la mente da pensieri surreali. 

“Sono proprio io?” si domanda. Gli intrighi che le scorrono come immagini al rallentatore le sembrano frutto di qualcun altro. Si guarda allo specchio scrutando nel profondo dei propri occhi cercando conferme; o smentite. 

È avvolta in un sottile telo color del sole che le aderisce al corpo disegnandone ogni tratto.

Mentre è in camera da letto per vestirsi, per un attimo avverte come una presenza, qualcuno che la osserva. Si volta repentina verso la finestra in preda al dubbio di essere vista: nessuno. Che strana sensazione!

Chiude l’ultimo bottone della camicetta di seta bianca e indossa il suo braccialetto di cuoio preferito. Quasi lo accarezza prima di chiuderlo al polso.

Prende due bicchieri di acqua e li mette a bollire nella pentola. Nel frattempo ha riempito un bicchiere di cenere: la aggiungerà all’acqua bollente e aspetterà un paio di ore per filtrarla e ricavarne la liscivia.

La prepara abitualmente, come faceva sua nonna, e ogni volta il pensiero segue le tracce del loro vissuto. 

Si affaccia sul balcone per assorbire un po’ di energia solare: chiude gli occhi col volto rivolto al sole e sente la luce e il calore che la invadono. Pochi istanti, poi riapre gli occhi e fa il giro di ricognizione tra il suo giardino verticale: tulipani, roselline, aloe, asparagi, fragole; c’è un po’ di tutto. Improvvisamente si ricorda che doveva terminare quella ricerca sulla biodiversità, così corre al pc per collegarsi al portale “Prodromo della vegetazione italiana”.


Ambrogio osserva la signora: è molto bella e sofisticata e sensuale e così maledettamente idiota.

Un tempo, le avrebbe suscitato pensieri voraci, ma da allora, fortunatamente era cresciuto ed era felice del rapporto con suo marito… anzi no: compagno, in quello sciocco paese retrogrado i matrimoni tra persone dello stesso sesso non erano riconosciuti.

Un popolo che pensa di normare i sentimenti è un popolo arido, morto, che si attacca a slogan senza mai fare lo sforzo di viverli.

Ma sì. Niente di nuovo sotto il vecchio sole che in questi paraggi scalda la testa ma non l’intelletto.

Prendiamo lei: così tronfia di insoddisfazione e ricordi di tempi andati, da non riuscire a guardare al presente, a ciò che le si offre, sempre alla ricerca di ciò che manca senza accogliere ciò che giunge.

Ambrogio inizia a spazzare l’inguacchio di terriccio lasciato dalle poche capacità giardiniere della signora; con la scopa, rigorosamente in saggina, come faceva la bis trisavola da parte di padre della padrona.

E che dire di quel pudico guardone? Innamorato perso che la osserva quasi ogni giorno, ma distoglie lo sguardo dalla sua nudità vera; le avrà mai visto un seno? Almeno per sbaglio?

Ambrogio non crede.

Due vite che scivolano come sabbia in una clessidra forata, lei persa nel passato, lui perso in un futuro che non ha il coraggio di afferrare.

Vorrebbe compatirli, provare un sentimento, ma la realtà è che gli sono indifferenti: non lo tangono.

Mentre si cambia, si chiede se sia colpa degli anni, delle esperienze o di chissà che altro.

Gli fa paura questa insensibilità, questo non provare; ha paura di diventare come tutti gli altri: una voce dietro uno slogan e nient’altro.

Poi giunge a casa, Roberto lo abbraccia; non lo fa sempre, ma nella giusta quantità perché non si crei mancanza né assuefazione.

E in quell’abbraccio capisce, o meglio ricorda, che non è aridità la sua, ma la semplice serenità di chi un posto nel mondo l’ha trovato: non puoi salvare chi non si vuole salvare; inutile piangere su di loro.


Composto in collaborazione con Virtuosamente.

Alle volte a quasi 40 anni…


Un’amica l’altro giorno ha scoperto di essere permalosa, a quasi 40 anni, mica 20!

Io l’ho sempre detto che i pregi finiscono presto, ma i difetti… Quelli non si finisce mai di scoprirli.

Per esempio, conosco un tale che a 40 anni suonati si è reso conto di essere un tappo.

Il giorno prima andava tutto bene, poi puff, 40 anni precisi ed eccolo lì, che si vede alto mezzo sughero o poco più.

E mica aveva fatto nulla di nuovo!

Ecco, magari aveva solo avuto voglia di farsi un giretto, per la prima volta senza la sua amata, per i fatti suoi.

Al ritorno, non c’era più lei: il suo grande amore, la sua compagna di vita. Svanita!

Sul principio c’era rimasto male, ma poi la storia di essere così minuto lo aveva sopraffatto.

Era un po’ narciso, mi sa.

Fatto sta che, lontano dalla sua Dulcamara, valeva proprio poco, come un tappo appunto…

Tentò di farsi animo, pensando a quanto bello potesse essere avere tutta la libertà del mondo. Finalmente avrebbe potuto gestire il suo tempo in completa autonomia. Ma le sue passeggiate divennero ben presto giri raminghi per strade e contrade. Che desolazione.

Mettendo da parte l’orgoglio, decise di tornare a bussare alla porta della bella Dulcamara, pieno d’amore e nostalgia per i tempi andati.

Ma quando lei aprì la porta, si accorse che di Dulcamara non era rimasto che un antico ricordo, che quasi puzzava di aceto.

Perché si sa che anche il vino più pregiato, se non accompagnato da un sughero di ottima qualità, invecchia male.

P.S.
Per chi volesse conoscerla: Dulcamara!!!

P.P.S.
In collaborazione con Ombre di re